Marco Fusaro è un giovane grassinese che lavora a Bruxelles al Parlamento europeo a due passi da dove ieri si è scatenato l’inferno. Questa è la sua testimonianza.
Prima di tutto occorre percepire il contesto in cui sta vivendo la capitale d’Europa in questi ultimi mesi.
I tremendi attentati di Parigi del 13 novembre scorso, dove persero la vita oltre 120 innocenti, infatti, avevano dimostrato che il fortino dei militanti jihadisti si trova proprio vicino al centro del Belgio, per la precisione a Moleenbeck, un quartiere che si trova ad una ventina di minuti a piedi da casa mia. In quel momento ho avuto, come d’altronde anche alcuni miei amici e colleghi, la sensazione che la minaccia fosse molto, troppo vicina e incombente.
La risposta delle forze dell’ordine agli attentati di Parigi non si era fatta attendere: numerosi blitz (non dai grandi esiti), coprifuoco per “una notte di paura”, scuole chiuse per 3 giorni, carri armati e militari per le vie della città, controlli più serrati all’ingresso delle istituzioni e panico generale. Il tutto per una settimana, forse due. Poi la città aveva ripreso a vivere la sua quotidianità, ma con la percezione che la situazione, sotto il profilo della sicurezza e della sorveglianza, non era sotto controllo. E che non si aveva un quadro preciso della capacità e della pericolosità di queste cellule terroristiche. Tanto è vero, che ancora l’intelligence belga e quella francese non erano riusciti a scovare il “superstite” degli attentatori di Parigi: il noto Salah Abdeslam. Sarà arrestato finalmente soltanto dopo 4 mesi, il 18 marzo 2016, proprio a pochi metri da casa sua, a Molenbeek (il quartier generale dell’Isis in Europa), dove era nascosto insieme ad altri terroristi della sua cerchia. Anche questa volta, più che una prova di forza e capacità di organizzazione, la polizia belga ci era apparsa mal coordinata, goffa e prive di quella capacità organizzativa che sarebbe necessaria per affrontare la minaccia terrorista. In ogni caso si trattava di una notizia positiva. In realtà, solo una grande illusione.
Arriva questo maledetto martedì 22 marzo. In un paio d’ore cambia di nuovo tutto. Si deve ripartire da zero. Pare evidente che il conto, la vendetta per la cattura del “fratello musulmano” Salah, la debba pagare anche Bruxelles, e soprattutto chi ci vive ogni giorno. In un attimo l’Isis colpisce i punti sensibili e probabilmente anche più sorvegliati della città: prima l’aeroporto di Zaventem (oltre 17 milioni di passeggeri in transito all’anno), poi la metropolitana tra la fermata di Schuman e quella di Maalbeck. L’area che comprende le sedi della Commissione europea, il Consiglio e il Parlamento europeo: i simboli della nostra cara e debilitata Europa comunitaria. Hanno dimostrato così a tutti che hanno capacità, organizzazione e combattenti a sufficienza per arrivare dritto al cuore dell’Unione europea e delle sue istituzioni. Una prova di forza per dimostrare non soltanto che esistono ancora, ma che sono ben radicati, numerosi e tecnicamente capaci di creare ordigni dalla distruzione incontrollabile. Si comincia a percepire uno stato di paura anche per chi, come me, si trovava al sicuro dentro il palazzi delle istituzioni.
Dalle 9 in poi comincia una pioggia sincera e preoccupata di messaggi, telefonate, whatsapp dall’Italia e da chi ti vuole bene. Ma anche la ricerca di tutti gli amici e colleghi che potrebbero essere in quell’istante in quella maledetta metro, a 400 metri dal Parlamento europeo, oppure nella sala check-in dell’aeroporto di Zaventem. Un paio d’ore di ansia per ritrovare tutti – e siano benedette le nuove tecnologie senza le quali questi momenti di terrore sarebbero quadruplicati – poi un sospiro di sollievo un po’ egoista nel realizzare che nessuno dei “tuoi” amici o cari è ferito (ma ce ne sono oltre 250), oppure scomparso (siamo a oltre 31 morti). Con i colleghi d’ufficio seguiamo la diretta di Sky Tg 24 e si legge tutte le ultime notizie da “Le Soir” (la testata giornalistica belga che fornisce gli ultimi aggiornamenti) per cercare di capire, in uno stato di totale insicurezza, se domani riusciremo a partire con l’aereo, da quale aeroporto, se potremo uscire dal Parlamento o restarvi chiuso dentro. Anche nel pomeriggio sarà impossibile lavorare (non fate facili ironie: si lavora eccome anche nelle istituzioni europee). Ma è impossibile parlare d’altro, impossibile smettere di pensare e riflettere, impossibile provare a trovare dei motivi o delle soluzioni (e chi ha la bacchetta magica per fermare questo mostro all’interno della nostra società?).
Tutto si è fermato, il 22 marzo 2016 a Bruxelles: siamo semplicemente stati spettatori di una tragedia di cui non siamo partecipi, ed io ritengo tanto meno responsabili. Ma sono davvero riusciti a fermare la clessidra del nostro tempo e il nostro lavoro? Ieri per lo meno sì. Ma domani sarà completamente differente.
Da domani si riparte. Non potranno e non dovranno mai cambiare il modo di essere, i valori comuni, i principi e la voglia di vivere, che stanno alla base dell’idea di Unione europea. Adesso sarà necessario pianificare con rapidità, coordinamento ed efficacia, una risposta comune per prevenire che accadano questi eventi e che si creino le condizioni, all’interno del tessuto sociale delle nostre città e periferie, per cui dei giovani decidano di farsi esplodere in aria per un “ideale” che non spetta a me analizzare adesso, privandosi della loro vita e di quella di tanta gente innocente.
Facile a dirsi, meno a farsi. Intanto la prossima settimana si torna a Bruxelles. Penso che abbia bisogno anche di noi giovani sognatori di un mondo dove questi episodi non esistono.
Marco Fusaro